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Com’è cambiato il mondo dell’informazione? Piccola storia della rivoluzione e manuale di istruzioni di un inviato di guerra destinato ai nuovi reporter digitali. La religione della notizia è forse l’unico modo per sopravvivere.
Il Rinascimento è cambiamento, rivoluzione artistica e culturale, un nuovo modo di concepire il mondo e se stessi. Una rottura spesso accompagnata da squilibri e contraddizioni, ma sicuramente affascinante. E’ il Nuovo Mondo digitale che ha cambiato totalmente la struttura dell’informazione, non solo sul piano tecnologico ma anche concettuale. Ecco dunque un piccolo manuale destinato ai nuovi reporter, ma anche le istruzioni per l’uso per chi vuole districarsi nel nuovo Pianeta Parallelo.
All’aeroporto di Bogotà la fermano e la perquisiscono: ha cinque chilogrammi di cocaina in valigia, e cento grammi nascosti nella vagina. E’ finita per Miriam, una giovane ragazza di Verona che ‐ per soldi, per disperazione, ma soprattutto per amore ‐ aveva accettato di fare la “mula”, la corriera della droga dalla Colombia all’Italia. In questo diario Miriam racconta la sua dura esperienza in un carcere di Bogotà, il Buen Pastor, un “inferno in terra” nel quale solo una personalità forte come la sua può resistere alla violenza fisica e alla sopraffazione psicologica. Un unico desiderio: tornare a casa da suo figlio. Un’unica possibilità: l’evasione. Il racconto di Miriam è struggente tanto è sincero. E non risparmia al lettore incredibili colpi di scena, come la cattura da parte dei guerriglieri delle Farc e l’amore per il suo carceriere, dal quale nascerà un bambino che si porterà appresso durante l’ultima rocambolesca fuga per l’Italia. Oggi Miriam è tonata a casa e ha pagato il suo debito con la giustizia.
Pino Scaccia, già grande reporter del Tg1, raccogliendo la testimonianza di Miriam offre al lettore uno spaccato della realtà colombiana, crocevia del narcotraffico, luogo intriso di contraddizioni, dove la violenza è radicata in profondità e la legge è dominata da criminalità e corruzione.Eppure, alla vigilia di uno storico accordo tra governo e Farc, la Colombia descritta in questo libro potrebbe non essere quella di domani.
In Russia la chiamano “Organizacija”. C’è sempre stata, ma sulle ceneri del post comunismo è diventata una minaccia globale perché forse non è la mafia più forte, ma sicuramente è la più ricca. Sfruttando le vecchie regole della nomenklatura, ha la capacità di trasformare in attività lecite tutto il malaffare: ha già invaso Europa e Stati Uniti. Possiede un vero esercito: centomila uomini attraverso seimila gruppi criminali (solo in Italia ne sono attivi sessanta) ma è quasi invisibile perché ripercorre le strade intraprese dagli oligarchi. Cerca soldi, più che sangue. Stretti gli accordi con tutte le grandi mafie del mondo ha un patrimonio smisurato di miliardi di dollari che reinveste nelle banche e nel mercato immobiliare. Attivissima nel traffico della droga, nella tratta di essere umani e nelle armi, mette paura per la potenzialità nel nucleare: sarebbe in grado di costruire addirittura la bomba atomica. L’ombra dei “padrini con il colbacco” circonderebbe anche il mistero della Concordia. E poi gli affari per il gas, i legami Putin-Berlusconi, lo sciagurato imbroglio kazako e sullo sfondo la caccia ai dissidenti e la strage dei giornalisti: trecento uccisi negli ultimi vent’anni. Con Mosca nuova centrale del capitalismo. Roundrobineditrice
La luna di Baghdad e’ diversa da tutte le altre perche’ non e’ una luna, sono due.Accanto alla solita luna ce n’e’ un’altra, di colore rosso. E’ il fuoco perenne della raffineria di Al Dhora, un po’ simbolica perche’ rappresenta forse i motivi della guerra. La seconda luna sta sempre li’, accanto alla luna vera e illumina (e angoscia) le nostri notti. Nei momenti piu’ brutti chiudo le tendine. E’ un gesto istintivo. Non so se lo faccio per nascondermi o per nascondere quello che succede fuori. Chiudo le tendine quando la botta e’ piu’ forte e sai che la granata e’ arrivata proprio sotto di te, ha sfiorato il terrazzino. Certo nessuno di noi si affaccia piu’ da quando quel carro armato si e’ girato verso il “Palestine” e ha fatto secchi due reporter. Ma Baghdad non e’ solo ricordi di guerra. In una notte di luna, per esempio, ho conosciuto Baldoni, l’unica volta in cui non ho chiuso la tendina, ma sono sceso sotto a vedere l’effetto della botta. L’avvio della storia di una grande amicizia cominciata scoprendo le nostre diversita’. Ripercorrere quei giorni cosi’ come si sono snodati significa, forse, capire perchè Enzo è morto. Mettendo in fila i ricordi di vita (e soprattutto di morte) in presa diretta si può anche rispondere a un altro interrogativo importante: perchè dopo anni la guerra non è ancora finita.
A Mosca, fra i nuovi democratici, gira una battuta: “C’e qualcosa di molto peggio del comunismo, è il post-comunìsmo”. Adattandola alla tragedia dell’Armir, si può dire che c’e qualcosa peggiore della morte: ed è il dubbio. Dovrebbe essere facile, in effetti, parlare di una guerra del passato. Ma la campagna di Russia è una fase del secondo conflitto mondiale ancora piena di ombre e di domande senza risposta. E’ un mistero soprattutto il destino della nostra armata, letteralmente scomparsa nella neve di un inverno mai così freddo come nel ‘42. Una guerra non finita per sessantacinquemila famiglie italiane. Un conflitto che anzi emotivamente `ritorna’ con l’apertura, dopo cin¬quant’anni di silenzio, degli archivi dell’ex impero sovietico. E’ qui raccontato tutto il percorso della dolorosa vicenda, dall’accordo fra i governi italiano e russo, al trasporto in Italia delle prime salme, oltre mille, riesumate nei cimiteri dove si svilupparono le più sanguinose battaglie. Un viaggio, dunque, nella valle del Don, ma soprattutto negli archivi; proficuo, anche se faticoso, per ricostruire la verità. E quello che doveva essere un racconto si è tra¬sformato fatalmente in un `libro bianco’ che risponde in qualche modo al disperato appello di tanta gente e alla richiesta di autenticità storica. In questo libro sono presentati documenti spesso inediti, per tanto tempo sepolti dalla polvere e addirittura negati: no¬mi, date, luoghi, piccole e grandi storie mai scritte di morte e di spe¬ranza. Un diario di viaggio che l’autore conclude con la sensazione, quasi un rimpianto, di abbandonare una vicenda che sembra appena cominciata. Chi poteva immaginare che dopo mezzo secolo la ferita fosse ancora così aperta? Al macero
“Finalmente scopro Kabul. Ferita. Variopinta. Incredibile ammasso di umanita’. Su ogni palazzo ci sono i segni pesanti di tutte le guerre che l’hanno violentata, da secoli. Il vecchio bazar dei quattro portici e’ ormai un’enorme baracca, il mausoleo di Timur Shah sventrato, la fortezza di Bala Hissar un cumulo di macerie. Avevo letto da qualche parte: Kabul e’ la citta’ che non c’e’. Invece e’ bellissima. Me ne innamoro, d’istinto”. E’ il primo impatto con Kabul di un inviato che ne ha viste tante. A Pino Scaccia bastera’ poco per rendersi conto poi dei problemi e dei disagi. Li soffrira’ quando diventera’ consapevole di una pace forse finta e della certezza che ci vorra’ ancora molto tempo per portare l’Afghanistan a un livello di vita decente. Un diario denso di racconti, ma soprattutto di riflessioni, la crisi di un cronista diviso fra il suo mondo, quello occidentale, e le contraddizioni di una terra cosi’ lontana, non solo fisicamente da noi. Il merito di un grande fotoreporter come Giorgio Pegoli e’ di aver tradotto in immagini questi dubbi, riprendendo cosi’ da vicino quel popolo afghana da guardarla quasi dentro, nell’anima. “La chiamano la citta’ degli scheletri per almeno tre motivi. Per quell’infinito panorama di rovine, per i morti che trent’anni di guerre hanno provocato, ma anche per i segreti, le paure, i fantasmi che ancora attanagliano Kabul”. Il blog dall’Afghanistan
L’idea è nata giorno dopo giorno. Durante quei due mesi passati in Calabria per Casella o durante quei due mesi abbondanti passati – tre anni dopo – in Sardegna per Farouk. O forse l’idea e’ scattata all’improvviso (ed e’ rimasta dentro, come un macigno) il giorno dell’incontro breve e angosciante a Parma con il marito di Mirella Silocchi, una signora di cinquant’anni diventata nonna senza saperlo: mai tornata. Con quell’uomo, Carlo Nicoli, grande e forte come un toro che piangeva inerme mentre si copriva la faccia con una mano senza due dita. Un operaio, trovato li’ in mezzo al ferro che gli ha dato appena un pizzico di benessere. Maledetto benessere se e’ costato la vita di una moglie rubata da chi ha pensato stupidamente che fosse cosi’ ricca da far ricchi gli altri. Riflettendo, l’idea sicuramente e’ maturata ogni volta che conoscevo segreti difficili da capire, figuratevi da dire. Quanti misteri, quante ombre, quanto dolore, quanti dubbi. L’aspetto piu’ sconvolgente e’ forse che certe verita’ scomode in realta’ sono state dette, talvolta urlate, da chi vi scrive e da numerosi colleghi su testate importanti. Ma la gente si e’ fatta sempre scivolare tutto addosso. Certo la decisione, finalmente, di raccontare alcuni di questi segreti e’ arrivata dopo il cosidetto “caso Lombardini” che ha squarciato misteri di decenni e che molti altri – nonostante la fine tragica del giudice – ne deve ancora svelare. Credo che il sequestro di persona sia un delitto abietto, perche’ fa leva sui sentimenti. Ma e’ anche “tecnicamente” il piu’ facile perche’ colpisce vittime impreparate e soprattutto perche’ trae la forza del territorio, se e’ vero che i terreni sono stati sempre storicamente solo due, entrambi (letteralmente) inestricabili: l’Aspromonte e la Barbagia. Tentativi al di fuori di questi territori sono quasi sempre falliti, a dispetto degli stessi protagonisti criminali. Per tutti questi motivi, la mafia che sequestra e’ stata spesso definita la mafia stracciona. Forse non lo e’: e’ soltanto legata al passato. E il grande paradosso e’ che il recente cosidetto “salto di qualita’” criminale fa credere di esserci ormai definitivamente avviati verso la fine dei rapimenti, sostituiti da traffici illeciti molto remunerativi, a cominciare naturalmente dalla droga. Raccontare la storia dei sequestri significa dunque anche tentare di capirli. Perche’ forse nascono proprio dalla disperazione, sono un po’ la rivolta all’abbandono. Forse riusciremo insieme a spiegarci, pagina dopo pagina, che non si tratta di un alibi. E comunque, se lo e’, di un alibi da abbattere perche’ socialmente pericoloso, infido. Questo libro l’ho cominciato a scrivere a Berlino, in vacanza, dopo aver visitato quel chilometro scarso che e’ rimasto del muro. Davanti ai graffiti prima del dolore, poi della speranza mi e’ venuto da riflettere: sul bene e sul male. Se vai da certe parti, in montagna, il tema e’ ricorrente. Dove sta il bene e dove sta il male. Già.
(…) Esattamente vent’anni dopo ho deciso di tornare. Sia nei sotterranei che nelle campagne, per vedere cos’è cambiato. La prima operazione, negli archivi, stavolta è risultata quasi proibitiva perché dopo l’ubriacatura immediatamente post-comunista è tornata in maniera forte l’abitudine sovietica di soffocare la libertà d’informazione. Più facile, e assai redditizio, il viaggio nella valle del Don, dove il cambiamento sociale è stato clamoroso, e dove la ricerca dei dispersi in guerra continua con immutata emozione. E forse, più di allora, è stato facile raccogliere storie dirette. Molti testimoni sono ancora vivi. Ma bisogna sbrigarsi, non c’è più molto tempo: i loro racconti presto saranno gli ultimi. Presentazione salone del libro di Torino Il blog Il reportage a Tv7 “Qui, proprio qui in questa stanza, hanno dormito per tanto tempo sette soldati italiani. Gentilissimi, educati. Chiamavano mio padre signor Gavrilich, chiedevano tutto per piacere. Enea era un omone, con la barba, somigliava a Fidel Castro. Faceva la guerra, ma era un pacifista convinto. Sai che diceva? ‘L’uomo quando prende in mano il fucile non è più un uomo’. Un giorno arrivarono i carri armati, era cominciata l’avanzata russa. Enea scappò, con gli altri. Chissà se ce l’ha fatta a tornare a casa oppure il suo corpo è ancora vicino a me”. (Leonid Tarakanov Gavrilerich, villaggio di Millerovo)
Shabaab in arabo significa letteralmente gioventù. Gli shabab, dunque, sono i giovani. Sicuramente sono diventati i protagonisti della rivolta in Libia, il nocciolo duro che ha innescato l’insurrezione. Per Gheddafi sono estremisti di al Qaeda “in preda ad allucinogeni sciolti nel Nescafé”. Per il presidente americano Barack Obama sono invece ragazzi “alla ricerca di un modo di vita migliore”. Tutti rigorosamente volontari, fra i giovani guerrieri c’è di tutto: dai teppisti di strada agli studenti universitari, dai disoccupati agli operai. Ma anche mercanti ed ex soldati, tutti con i calci dei fucili (così come le facce) dipinti di rosso verde nero, la bandiera pre rais. Il loro modo di combattere spesso è più rumoroso che concreto: vanno al fronte cantando e sparando in aria, su e giù per il deserto sugli improvvisati gun-wagons, i pick up su cui sono montate alla buona le mitragliatrici. Una volta ne ho visti quattro con un solo kalashnikov, se lo passavano. Certamente non sono soli. Ci sono religiosi e probabilmente qualche jihadista come istruttore. Ma, oltre all’irresistibile entusiasmo giovanile, la loro molla è la rabbia che cresce ad ogni lutto. Non sappiamo ancora come finirà. Ma cerchiamo di capire almeno come, e perché, è cominciata. Editore: Il Mondo Digitale Editore
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